Le ultime elezioni amministrative hanno dimostrato la crescente sfiducia che una parte consistente dell’elettorato continua a nutrire nei confronti della politica.

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Si tratta di un dato che dovrebbe preoccupare chiunque abbia a cuore le sorti della nostra democrazia di cui il cittadino non è in grado di cogliere le cause del declino.

Da questa incapacità interpretativa delle vicende politiche deriva quel senso di impotenza che induce molti elettori a non credere alla partecipazione e a ritenere perfino inutile recarsi alle urne.

In altri tempi avremmo detto che si tratta di spregevole qualunquismo: oggi, di contro, sappiamo che l’astensione rappresenta l’espressione di una grave crisi della rappresentanza che nessuno oserebbe più sottovalutare.

Tutti abbiamo assistito ai festeggiamenti e alle manifestazioni di giubilo da parte dei vincitori di ogni colore: reazione comprensibile e del tutto legittima ma, va detto, ben lontana dalla realtà di un elettorato che, sommando gli astenuti ai voti tributati agli avversari, dimostra palesemente di non riconoscersi nel vincitore.

Sappiamo tutti che rivedremo quei festeggiamenti anche in occasione dei ballottaggi o delle elezioni politiche nelle quali, senza colpo ferire, la nomenclatura ha confiscato il diritto degli elettori di scegliere a chi dare il voto (le famigerate “liste bloccate” che tutti i partiti fingono di non volere).

Questo è il punto: i nostri politici sono in grado di capire che lo scollamento tra politica e società civile è talmente radicato da costituire una seria minaccia alla stabilità delle istituzioni?

Il progressivo impoverimento del paese ha accentuato la divaricazione tra “paese legale” e “paese reale” che non è mai stata così grave e profonda.

Nel corpo sociale è sempre più diffusa la percezione che la politica sia una sentina di privilegi, sia mera occupazione di potere, distribuzione di incarichi, di appalti e di tangenti: nella migliore delle ipotesi, la politica viene vista come espediente per godere di visibilità e di relazioni finalizzate a facilitare un’ascesa professionale o imprenditoriale.

Le elezioni comunali costituiscono, spesso, un esempio di questo florilegio che ha poco da spartire con la democrazia.

A differenza delle elezioni politiche, caratterizzate da una “distanza” che non consente al cittadino di verificare la caratura dei candidati, nelle elezioni comunali tutti sono in grado di conoscere tutti, direttamente o indirettamente.

In passato nessuno avrebbe immaginato che l’astensione si sarebbe estesa alle elezioni locali.

Le città e, specialmente, i piccoli centri urbani, erano in grado di mobilitare l’elettorato con grande facilità grazie, appunto, alla conoscenza personale del candidato, al rapporto ravvicinato tra elettori e candidati.

Paradossalmente, oggi è proprio questa “vicinanza” che induce il cittadino al disimpegno e all’astensione.

Si tratta di una bocciatura perentoria sferrata, senza mercé, a nomi e volti di cui si conosce la storia, il passato, il temperamento, lo stile di comportamento nel mondo del lavoro e nei rapporti interpersonali. Non è una cosa da poco.

Abbiamo, per anni, sottovalutato che il lievito della politica resta lo spirito comunitario, il senso del bene comune e, soprattutto, la passione: passione fatta di letture, di analisi, di confronti dialettici, anche aspri, con amici e avversari.

Dietro la grande mistificazione della “cultura del fare”, negli ultimi decenni abbiamo visto affacciarsi soggetti che concepiscono la politica come affarismo e come strumento di affermazione personale, che ignorano spensieratamente cosa sia la politica nella sua più nobile accezione.

L’astensione di massa che abbiamo visto in tutto il paese, pertanto, non è altro che l’espressione del disincanto e della rabbia di un elettorato che guarda con disprezzo quella politica che non perde il vizio di servirsi del cittadino fingendo di servirlo.

Bisogna ripartire da questo se vogliamo ridare un senso alla nostra democrazia, se vogliamo rilanciare la partecipazione, se non vogliamo lasciare campo libero ai furbi e ai lestofanti.

Un pensiero su “Quei politici che si servono del cittadino fingendo di servirlo”

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