Li chiameranno i “ragazzi del 2020”, sono le vittime illustri della scuola italiana a cui la pandemia ha sottratto la gioia di vivere la grande emozione dell’ultimo anno scolastico che resta, per tutti, l’anno dei rimpianti, dei pentimenti, della mesta consapevolezza che la scuola, in fondo, non era poi così tanto male.

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L’esame di Stato in presenza vorrebbe essere, forse, una sorta di indennizzo per i nostri ragazzi ai quali si sarebbe potuto regalare la possibilità di tornare in classe almeno in quest’ultimo mese. E’ mancato il coraggio di fare ciò che hanno fatto gli altri paesi. In Inghilterra e in Germania, ad esempio, agli alunni dell’ultimo anno è stato consentito di tornare tra i banchi di scuola. In verità, consentire la riapertura delle scuole nel mese di maggio alle sole classi di fine ciclo avrebbe consentito di sperimentarne le criticità e di studiarne i correttivi. Così non è stato e, per questo motivo, ancora oggi si brancola nel buio più totale, in un assoluto vuoto progettuale dominato da una desolante assenza di idee.

Questa incertezza desta non poche preoccupazioni perché lascia trasparire un dubbio che il governo sarebbe obbligato a fugare con estrema chiarezza: a settembre le scuole italiane riapriranno, sì o no?

L’emergenza sanitaria di questi mesi ci ha insegnato ad accettare la prospettiva che, come usano dire gli scienziati, in autunno “saremo costretti a convivere con il virus”. D’altro canto, una società avanzata non può rassegnarsi ad alzare le mani davanti alle minacce incombenti di una pandemia che, come stiamo vedendo in questi giorni, rischia di mettere in ginocchio l’economia di un intero paese. La frase disperata di un giovane disoccupato, “meglio morire di Covid, che morire di fame”, rischia di diventare lo slogan triste di una società sempre più incline a credere che la perdita del lavoro rappresenti un rischio perfino peggiore del virus.

La nostra società, pertanto, è chiamata ad attrezzarsi in modo adeguato per cercare di fronteggiare l’ubiqua presenza di un nemico destinato a minare per lungo tempo la nostra quotidianità. Per questa ragione, anche la scuola è chiamata a fare la sua parte assicurando la ripresa delle proprie attività con tutti gli opportuni aggiustamenti che, come si diceva, sarebbe stato utile sperimentare per tempo. Si tratta di un’occasione perduta che non deve costituire, tuttavia, il pretesto per lasciare le famiglie, i ragazzi e gli stessi insegnanti in balia di quella incertezza che, in questi mesi, ha spesso caratterizzato la condotta del governo (ricordiamo, ad esempio, la promozione di massa annunciata dal ministro Azzolina in aprile e poi sconfessata nel mese di maggio: così facendo, tutte le bocciature saranno impugnabili).

Riapertura delle scuole a settembre, fine della didattica a distanza, obbligo di distanziamento e di mascherine: dovranno essere questi i pilastri della linea difensiva del nostro sistema scolastico nei confronti del Covid. A causa dell’emergenza sanitaria e dei problemi impellenti della nostra economia, senza volerlo la scuola italiana ha vissuto in questi mesi in una sorta di bolla che l’opinione pubblica ha completamente ignorato.

Occorre, ora, prendere atto della necessità, urgente e indifferibile, di ridare la giusta centralità all’istruzione. La scuola resta il luogo per antonomasia in cui il cittadino forma la propria personalità attraverso la relazione, il confronto, il rapporto dialettico con i compagni e con i professori.

La didattica a distanza svilisce questa peculiarità perché condanna i nostri ragazzi alla solitudine costringendoli ad abdicare alla loro naturale socievolezza. Non solo. La didattica digitale non potrà mai insegnare ai ragazzi che il sapere e la conoscenza aiutano a nutrirsi del prezioso tormento del dubbio, a scardinare abiti mentali consolidati, a scoprire le arcane modalità di manipolazione del cittadino, a capire che “siamo nani sulle spalle dei giganti”.

Pertanto, se vogliamo costruire una società migliore, in grado di competere con le nazioni più avanzate, dobbiamo capire che la scuola ne rappresenta l’irrinunciabile architrave. La sensazione è che il mondo politico e la società italiana non abbiano precisa contezza della povertà educativa e culturale del popolo italiano di cui esistono innumerevoli prove perfino negli ambienti più prestigiosi.

Evidentemente, anche questa povertà può contribuire a costruire le fortune di quelle classi dirigenti per le quali, ad esempio, risulta normale riprendere il campionato di calcio e tenere le scuole chiuse. Aveva, davvero, ragione Federico Fellini: “se non siamo cresciuti completamente imbecilli, è un miracolo”.

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