Emilio Magni racconta per noi, in esclusiva, la tragica storia del rapimento di Cristina Mazzotti di cui, come cronista della “Provincia”, seguì gli svlluppi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, fino alla tragica notizia del corpo ritrovato in una discarica.

Sono passati quasi cinquant’anni ma ricordo, con immenso dolore, come fosse ieri, l’urlo lancinante di papà Elios Mazzotti e il pianto sommesso della mamma Carla. Era la sera del primo settembre del 1975 ed ero appoggiato al cancello chiuso della villa di Galliano: ero stato io a dare alla famiglia la notizia del ritrovamento del corpo di Cristina. Già dal pomeriggio si vociferava che il rapimento di Cristina Mazzotti fosse, ormai, alla conclusione. Si temeva il peggio. A metà sera giunse la conferma: il corpo di Cristina era stato ritrovato in una discarica dalle parti di Novara. Mi trovavo nella mia casa a Erba quando il direttore della “Provincia”, Gianni De Simoni, mi chiamò per chiedermi di andare a Galliano per dare la notizia alla famiglia di Cristina affinché non lo sapessero dal telegiornale. Intravidi, al di là del cancello, Marco Airoldi, mio amico di infanzia, fratello della mamma di Cristina. Diedi a lui la notizia. Corse dentro. Proprio in quel momento sentii l’urlo straziante di Elios Mazzotti. Poiché ero a conoscenza della località in cui Carabinieri e Polizia stavano cercando il cadavere di Cristina, ne diedi notizia a Marco. Ricordo che parenti e amici di famiglia, che si trovavano all’interno del parco, cercavano convulsamente di individuare sulle cartine stradali il luogo, Varallino di Galliate, e il percorso per raggiungerlo.

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Ha lasciato un’impronta assai dolorosa nella mia vita la tragedia di Cristina Mazzotti che, in quell’estate del 1975, vissi sia come cronista, ma, in particolare, come amico di Alberto Airoldi, il nonno di Cristina che abitava vicino alla mia casa ad Erba Alta.

Ricordo benissimo i giorni in cui era nata Cristina.

La sera di fine giugno, due giorni prima del rapimento, come altre volte, Cristina era al bar Bosisio di Erba, con i suoi amici: quella del cuore, Emanuela Luisari, e Carlo Galli, il suo fidanzato. Quella sera fu l’ultima volta in cui la vidi: seduta sul gradino all’ingresso, teneva sulle ginocchia mia figlia Benedetta alla quale aveva  offerto un chewingum.

La sera successiva Cristina stava rientrando a casa, nella villa della sua famiglia a Galliano di Eupilio, quando la Mini Minor condotta da Carlo Galli, sulla quale lei si trovava insieme ad Emanuela Luisari, fu bloccata lungo una stradina sterrata e buia da una Fiat 125 gialla, messasi di traverso e dalla quale scesero dei giovani che, dopo avere immobilizzato Carlo Galli, costrinsero Cristina a salire sulla loro auto.

Cominciò così il calvario della ragazza che durò pressappoco due mesi, cioè, fino al 1 settembre 1975.

 

All’epoca le cronache giudiziarie riferirono che il sequestro di Cristina era stato ideato e programmato da una famiglia della ‘ndrangheta calabrese con a capo tale Achille Gaetano. L’esecuzione materiale del sequestro era stata affidata a malviventi “professionisti” (o ritenuti tali, vista la totale inadeguatezza emersa durante il processo) esperti nei rapimenti, nella custodia dell’ostaggio e nelle trattative con la famiglia. Magistratura, Carabinieri e Polizia individuarono subito alcune persone fotografandoli in una cabina del Varesotto intenti a telefonare alla famiglia di Cristina. Al padre Elios fu chiesto un riscatto di due miliardi, uno dei quali fu prontamente versato. Il secondo stava per essere consegnato nello stesso momento in cui le indagini portarono alla scoperta del corpo della ragazza. La chiave della vicenda fu Libero Ballinari, un contrabbandiere ticinese che era stato uno dei carcerieri di Cristina, il quale aveva depositato 56 milioni di lire in una banca di Ponte Tresa. Messo alle strette dalla polizia di Lugano, Ballinari rivelò che il corpo della ragazza era stato sepolto in una discarica di Galliate sotto un cumulo di immondizie sul quale era stata collocata una vecchia carrozzina. Ballinari fece anche i nomi dei complici e per gli inquirenti divenne facile catturare quasi tutta la banda. Le “belve”, come la stampa e l’opinione pubblica ebbe a definirli, furono Giuliano Angelini, geometra, a cui fu affidata la ragazza rapita, la sua compagna Loredana Pedroncini, la carceriera, assieme a Rosa Cristiano, Antonio Giacobbe, il boss, Giuseppe Milan, Alberto Menzaghi e Francesco Rossello che intrattennero i rapporti con la famiglia. Dalle indagini emerse che Cristina era stata tenuta prigioniera nella cascina Padreterno a Castelletto Ticino per poi essere costretta, gli ultimi giorni, a restare sdraiata dentro un loculo scavato nell’aia. La Pedroncini le dava due panini al giorno somministrandole continuamente del Valium, il sedativo che la uccise. Quando ai giornalisti fu mostrato il nascondiglio, una fossa non più lunga di due metri nella quale si poteva stare solo stesi, furono in molti a coprirsi gli occhi pieni di sgomento.

Il Santuario del Varallino che sorge nella zona in cui fu trovato il corpo di Cristina Mazzotti.

E adesso è sceso l’oblio sulla tragica storia di Cristina Mazzotti? Nient’affatto. Quella tragica vicenda, che nell’estate del 1975 fu seguita da tutta la stampa, nazionale ed estera, è ancora nei ricordi, nelle emozioni, nel dolore della gente. Nel 1977 la Corte d’Assise di Novara inflisse tredici condanne, di cui otto ergastoli. Otto dei condannati, fra cui Ballinari, nel frattempo sono deceduti. Sul piano giudiziario, tuttavia, la storia non si è ancora conclusa. Una svolta importante sul piano investigativo avvenne nel 2008 quando fu identificato uno degli esecutori materiali del sequestro, rimasto ignoto per lungo tempo insieme agli altri tre del commando. Oggi possiamo dire con certezza che furono in quattro ad eseguire il sequestro di Cristina, come ha sempre sostenuto Carlo Galli, il ragazzo alla guida della Mini Minor che stava riportando a casa Cristina e la sua amica Emanuela.

Il classico colpo di teatro avvenne grazie alle avanzate modalità di investigazioni della Polizia scientifica che, avvalendosi di una peculiare tecnica di comparazione definita “Afis”, permise di scoprire l’esatta paternità delle impronte digitali lasciate sul cruscotto della Mini Minor dal bandito che si mise alla guida dell’auto. E’ stato così che, 33 anni dopo, sono stati identificati tutti i  protagonisti di questa tragica vicenda che ho voluto raccontare non senza provare qualche brivido nel ricordarne i dettagli. L’impronta digitale era di Demetrio Latella, originario della Calabria e residente a Novara, che nel 2008 stava scontando 32 anni di reclusione per un altro rapimento.

All’epoca del sequestro, Latella era un giovane appartenente al gruppo catanese degli Epaminonda e si faceva chiamare “Luciano”. Interrogato dagli inquirenti, Latella ammise di essere stato uno dei sequestratori materiali di Cristina Mazzotti insieme ad Antonio Talia e Giuseppe Calabrò. L’indagine permise alla “Distrettuale Antimafia” di Torino di “riaprire” il caso concentrando l’attenzione su alcuni componenti della banda che ai tempi non erano stati individuati. Nel giugno 2012 i giudici di Milano archiviarono la posizione di Latella, Talia e Calabrò sul presupposto che, oltre alla prescrizione del reato di sequestro di persona, era da ritenersi prescritto anche il reato di omicidio volontario aggravato. Il caso sembrava definitivamente chiuso quando, inaspettatamente, è stato riaperto all’inizio del 2021 a seguito della pronuncia delle Sezioni riunite della Corte di Cassazione secondo cui non può esserci prescrizione per l’omicidio volontario aggravato. Le nuove indagini sono state chiuse con la richiesta di rinvio a giudizio di Latella, Calabrò e Talia ai quali si è aggiunto Giuseppe Morabito che, secondo l’accusa, sarebbe stato l’ideatore del sequestro insieme ad altri due boss, entrambi deceduti: Giacomo Zagari e Francesco Aquilano. 50 anni dopo, questa tragica vicenda che sconvolse l’Italia, rappresenta una ferita ancora aperta.

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Ringrazio personalmente Emilio Magni per aver accolto il mio invito a raccontare per il sito la storia del rapimento di Cristina Mazzotti di cui la mia generazione conserva solo vaghe reminiscenze. Il racconto di Emilio, pervaso di grande partecipazione emotiva, restituisce alla memoria una vicenda umana di cui ognuno può cogliere la drammaticità. Antonio Dostuni

Anche Il Dieci ringrazia Emilio Magni per l’amichevole disponibilità ad accordarci la pubblicazione delle sue memorie sul tragico caso di Cristina Mazzotti, in attesa di leggere il libro che verrà editato prossimamente da Mursia.

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