Le dispute sul Mes che dividono governo e opposizione, anche al loro stesso interno, offrono l’occasione per constatare che esiste una parte significativa del paese che continua a coltivare una visione bifronte dello Stato di cui, a seconda della convenienza, si invoca l’immediato soccorso o se ne deplora la vorace invadenza. Per decenni lo Stato italiano si è comportato in modo materno elargendo gratuitamente servizi a chiunque, perfino ai cittadini più facoltosi i quali, sovente, hanno anche beneficiato del generoso rendimento dei titoli di Stato (Bot, Btp, Cct). Siamo sempre stati un paese dalla memoria corta ma, ogni tanto, sarebbe utile ripassare le cause del saccheggio delle pubbliche finanze che, per decenni, ha costituito lo strumento di raccolta di un consenso che si fondava su uno scambio di cui solo oggi scopriamo la natura truffaldina. Grazie al debito pubblico, infatti, un’intera classe politica ha potuto godere di una sostanziale inamovibilità incoraggiando nel cittadino la convinzione che lo Stato fosse una inesauribile cornucopia, una mammella opima in grado di sfamare tutti e sempre. Si aggiunga a ciò il famigerato “fattore K”, cioè il terrore inveterato verso il pericolo comunista, e si può capire perché un intero paese non abbia mai potuto accorgersi dei danni incalcolabili che il debito pubblico avrebbe determinato nel tempo. L’ingresso nell’Unione europea rappresenta il momento di svolta di cui, ancora oggi, stentiamo a cogliere le profonde implicazioni. Se lo Stato italiano si è comportato come una madre generosa e clemente, l’Unione europea ha assunto, fin da subito, il cipiglio del padre attento e severo, poco indulgente con la riottosità dei suoi figli. Ancora oggi c’è una parte del paese che imputa all’euro la causa del nostro impoverimento e, parimenti, esiste una parte del mondo politico che non esita astutamente a cavalcarne l’insofferenza. Questa incapacità di fare autocritica resta una delle costanti del nostro costume che, come usa dire Arrigo Sacchi, non ha mai maturato una vera “cultura della sconfitta”. La sconfitta rappresenta un momento topico nel processo di crescita perché costringe a prendere atto dei propri errori e, magari, anche dei propri limiti. Ma noi italiani non sappiamo perdere ed è questo il problema. Come nello sport, tendiamo a credere che sia sempre colpa di qualcun altro. In quest’ottica, il nostro impoverimento non sarebbe affatto da imputare agli errori del passato, ad una gestione allegra della spesa statale, ad un uso elettoralistico del debito pubblico. No, nulla di tutto questo: siamo più poveri per colpa della moneta unica, dell’Europa e, sopratutto, della Merkel e della Germania. Il dibattito in corso sul Mes ci riconduce a ciò che siamo e a ciò che i nostri partner europei vorrebbero che noi fossimo: il problema è tutto qui. Noi siamo un paese che storicamente ha convissuto in modo spensierato con un debito pubblico di dimensioni abnormi. Ma per i tedeschi questo risulta inaccettabile e perfino la loro lingua nazionale rivela questa sorta di diversità antropologica. In tedesco, infatti, “debito” si dice “Schuld” che significa anche “colpa”: un debitore merita aiuto e comprensione se ammette le proprie colpe. Ecco perché i tedeschi non si fidano di noi come non si fidano di noi gli olandesi il cui premier, Mark Rutte, non le manda a dire ogni volta che si parla del nostro paese. Come accaduto in passato, ancora una volta non esitiamo ad imputare agli altri la causa delle nostre inadempienze. Eppure, basterebbe poco per fare autocritica. Ad esempio, nessun governo della Repubblica è mai riuscito ad incidere realmente sui problemi strutturali del paese che tutti ben conosciamo: burocrazia, fisco, giustizia, Mezzogiorno e criminalità organizzata. Per decenni abbiamo assistito a riforme estemporanee, abborracciate, molto spesso abortite sul nascere. Con un minimo di onestà intellettuale dovremmo, quindi, ammettere i nostri errori ed evitare, come è nostra abitudine, di prendercela con gli altri. Il vero problema, pertanto, non è il Mes ma il nostro atavico, ostinato, immarcescibile vittimismo da cui è giunto il momento di liberarci una volta per tutte. Giusto per non apparire ridicoli.

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