In tutti i paesi esiste quella che, comunemente, viene definita “gift economy” (letteralmente,  “economia del dono”).

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Si tratta di un universo parallelo al sistema dell’economia legale che si fonda su benefici, vantaggi e favori che derivano dalla capacità di tessere rapporti e relazioni.

Non si tratta di corruzione vera e propria: ad esempio, si può favorire una carriera, una nomina, un’assunzione senza che, necessariamente, ci siano donativi o dazioni di denaro.

Quando si parla di sistema economico, il cittadino conosce bene le varie stratificazioni di cui esso si compone: esiste una sfera legale che si fonda sulla competenza e sul merito; esiste una dimensione (ecco, la “gift economy”) che verte su favoritismi e raccomandazioni; infine, esiste una sfera illegale che si fonda sullo scambio corruttivo.

Il problema nasce quando il corpo sociale finisce per smarrire le coordinate etiche che consentono di cogliere gli esatti confini tra ciò che è legale e ciò che non lo è.

Da questa sovrapposizione si origina la tragica assuefazione del cittadino a ritenere eccezionale la tutela del merito e, di contro, ritenere del tutto normale ogni devianza, ogni prassi illecita e perfino ogni comportamento criminoso.

Prima il Qatargate e poi la cattura di Matteo Messina Denaro impongono di prendere atto che, nel nostro paese, il fenomeno corruttivo è diventato sempre più pervasivo e interstiziale. In proposito, risultano paradigmatiche le dichiarazioni del procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, secondo cui il boss di Cosa Nostra, appena arrestato, avrebbe goduto dell’appoggio di “una fetta di borghesia mafiosa”.

La verità è che in Italia, da tempo immemorabile, esiste un apparato criminale che si compone di imprenditori, professionisti, funzionari e impiegati dello Stato, che non esita a coltivare legami organici con le mafie le quali, grazie a questi rapporti, continuano a vantare una grande capacità di penetrazione nell’universo della politica, locale e nazionale.

Si tratta di una corruzione frequentata da personaggi minori, anonimi, talora perfino irrilevanti e, come tali, insospettabili. La sensazione è che, dietro la “guerra”, ormai trentennale, di Berlusconi contro la magistratura, esista un pezzo del paese che ha disinvoltamente coltivato i propri affari nella diffusa convinzione di godere di assoluta impunità.

Dietro il paravento del Cavaliere, il sistema dei partiti si è dedicato al malaffare cooptando falangi di magliari che hanno concepito la politica come crocevia per accedere al grande business.

Dopo l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, la politica tende ad utilizzare qualunque canale, lecito e illecito, per presidare tutte le sedi ritenute strategiche sotto il profilo della capacità di creare consenso e denaro.

La democrazia, anche la più “nobile” delle democrazie, si fonda su questa “ignobile” osmosi in virtù della quale il denaro alimenta il potere e il potere alimenta il denaro. In quest’ottica, oggi il mercato della politica non esita ad allargare il proprio raggio d’azione varcando i confini nazionali, come dimostra la vicenda del Qatargate da cui emerge chiaramente che affari e politica sono abitati dagli stessi personaggi che, in prima persona o attraverso i propri mandatari, si siedono allo stesso tavolo.

La crisi di rappresentanza che ha travolto i partiti nasce, pertanto, dalla consapevolezza del cittadino che la democrazia parlamentare sia diventata, ormai, un vuoto simulacro dominato da lobby e da gruppi di potere per i quali diritti umani e libertà civili sono solo un pretesto per indulgere a dotte dissertazioni sulla democrazia, sull’Occidente e su una infinità di “carabattole” che ormai incantano solo i gonzi.

Se questo è il contesto, per la mafia è un gioco da ragazzi insediarsi stabilmente nella politica e nelle istituzioni. La libertà di cui ha goduto per trenta, lunghissimi anni, Matteo Messina Denaro, costituisce l’ennesima riprova di questa inveterata contiguità tra politica e criminalità organizzata, talmente radicata da indurre il cittadino perfino a dubitare che si sia trattato di una cattura (il boss si è consegnato oppure è stato consegnato da Cosa Nostra?).

Pertanto, l’ “affaire” Qatargate e l’arresto di Messina Denaro dovrebbero farci riflettere sul filo rosso che lega il comportamento quotidiano del cittadino con l’espansione dell’economia criminale.

In proposito, sarebbe utile rammentare il monito di Giovanni Falcone: “Per combattere la mafia non bisogna pensare che sia un cancro: dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia”. 

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