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Avevo poco meno di quindici anni, fosse stato un trasferimento da una grande città, ad una piccola cittadina di provincia, già sarebbe stato abbastanza traumatico, ma mi ritrovai a dovere cambiare, un palazzo di dodici piani, nella via dove abitavo dalla nascita, con tutti i miei amici a Roma, barattato con una vecchia casa colonica, immersa nel nulla totale, confinante su due lati da immense piantagioni di grano, mais e cocomeri, mentre, per gli altri due, da circa duecento ettari di pini marittimi, piantati con estrema cura a pari distanza uno dall’altro decine di anni prima, per onorare la nascita della figlia Valeria, dal proprietario di tutto ciò, che a perdita d’occhio si poteva vedere dalle finestre di quel che allora mi sembrava solo un cubo roseo, incorniciato sul davanti da una splendida bouganville. Tale era la maniacalità di quel genitore, che si racconta, fece potare tutti i pini in modo che crescessero con i tronchi a due cosce, a formare una “v” iniziale del nome della propria erede.

Poi la stalla abbandonata, il grande fontanile, due enormi capannoni pieni di trattori e vari attrezzi agricoli, un pollaio e la catasta di legna pronta per l’inverno, per alimentare l’unico camino, fonte di riscaldamento, di tutta l’abitazione. Questo è quel che vidi appena arrivato alla “campana” a quel casale che sarebbe divenuto per i quindici anni successivi casa mia. Solo a distanza di tempo mi rendo conto, che quei ruvidissimi tronchi, allineati come soldatini in parata, dimora estiva di milioni di rumorosissime cicale e dalle chiome sempre verdi, anche nei più freddi inverni, li ricordo come amici fedeli, custodi di gran parte dei momenti, anche i più intimi della mia adolescenza.

Paolo

2 pensiero su “LA CAMPANA – i racconti della domenica”

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