Esiste un denominatore comune che lega la caduta del governo Conte e le recenti dimissioni di Nicola Zingaretti. Tutti sanno, fingendo di non saperlo, che era un finale già scritto da ricondurre ad una matrice comune, ad una precisa strategia “rottamatoria” di cui risulta facilmente riconoscibile l’artefice. Infatti, malgrado il perdurante silenzio di Renzi, non è un mistero che la notizia delle dimissioni di Zingaretti sia stata accolta con grande entusiasmo dai renziani i quali, dopo aver presidiato il Pd con una pattuglia di fedelissimi, cercheranno ora di riprendersi il partito lanciando la candidatura del governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini. Il fallimento di Italia viva ha costretto Matteo Renzi a tornare sui suoi passi rivalutando l’utilità del Partito democratico in vista delle prossime elezioni che si annunciano complicate a causa del drastico taglio dei parlamentari. L’operazione centrista perseguita da Renzi, volta a prosciugare Forza Italia, non può più essere portata avanti con un partito che, oltre a non godere dei favori dei sondaggi, non vanta alcuna sorta di radicamento territoriale. Pertanto, in piena pandemia, nel solco di una tradizione cara alla sinistra, il Pd si accinge a trasformarsi in un campo di Agramante di cui il segretario uscente ha già offerto una sintesi con una frase a cui non occorre aggiungere altro: “Mi vergogno che nel Pd si parli solo di poltrone.. quando in Italia sta esplodendo il Covid”. Si tratta di una confessione amara da cui emerge la favola di un partito “istituzionale”, pronto ad immolarsi per la nazione, dapprima avallando la formazione di un governo con gli odiatissimi 5 Stelle e, poi, aderendo d’acchito al nuovo esecutivo con i nemici di sempre (Lega e Forza Italia). L’accusa di Zingaretti, pertanto, restituisce l’immagine di un partito che ha completamente smarrito le proprie ragioni identitarie in nome di una asserita “cultura di governo” che è stata, spesso, celebrata come il segno di una metamorfosi, in ritardo con la Storia, da cui l’intera società italiana avrebbe tratto beneficio: una sinistra finalmente matura, si diceva, avrebbe consentito al paese quel cambio di passo che le “forze conservatrici” avevano storicamente ostacolato vanificando sul nascere qualunque ipotesi di modernizzazione. Questa è stata l’esegesi della storia patria degli ultimi decenni a cui l’elettorato di sinistra ha generosamente creduto appoggiando qualunque tipo di svolta, partendo dalla Bolognina, passando da Matteo Renzi per poi giungere fino all’ultima, anodina, impalpabile segreteria di Nicola Zingaretti: “triste, solitario y final”, come recita il titolo di un celebre libro di Osvaldo Soriano. L’obiettiva necessità di dare al sistema politico italiano una forza progressista, riformista e saldamente europeista, ha condotto gradualmente il Partito democratico a smarrire le proprie ragioni costitutive, la propria grammatica politica e, perfino, il proprio linguaggio. Se vogliamo dirla tutta, la crisi del Pd è cominciata con gli assordanti silenzi che hanno accompagnato le politiche di austerità di un’Europa davanti alla quale la sinistra europea, compresa quella italiana, si è sempre prosternata a capo chino senza mai battere ciglio. Davanti al progressivo impoverimento dei ceti medi e alla crescente precarizzazione del lavoro, il Pd ha via via assunto le sembianze di un partito sempre più vicino all’establishment e sempre più lontano dalle aree del disagio sociale. Questo è il “campo” in cui occorre collocare e interpretare l’irresistibile ascesa di Matteo Renzi alla guida del partito, di un partito che sembrava cercare spasmodicamente una definitiva legittimazione nei santuari del potere, che ambiva affannosamente ad essere ricevuto a corte con la smania di dimostrare di avere dismesso per sempre l’antica mutria del rancore. Le dimissioni di Zingaretti, pertanto, dovranno essere l’occasione per capire che essere riformisti non significa abdicare ai propri valori, che il pragmatismo non si identifica con l’eclettismo, che la duttilità dell’azione politica non può portare a disperdere i propri riferimenti culturali: diceva Victor Hugo, “come gli alberi cambiano le foglie e conservano le radici, così cambiate le vostre idee ma conservate i vostri principi”. Da lungo tempo il Partito democratico è una nebulosa di cui si ignorano ideali e visione del mondo, un partito nel quale hanno trovato rifugio mediocri carrieristi che abbiamo visto operare in ogni periferia del tutto incuranti dei bisogni del cittadino: di costoro, nessuno ne ricorderà mai il passaggio. Occorre prendere atto che la pandemia sta mettendo a nudo una crisi di sistema di cui la crisi del Partito democratico rappresenta solo un tassello. Per questa ragione, se il Pd piange, per gli altri partiti c’è poco da ridere.

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