Subito dopo la débâcle elettorale, Enrico Letta non ha perso tempo a rassegnare le dimissioni da segretario del partito Democratico.

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La serietà di questo gesto non basta, tuttavia, a giustificare la messe di errori compiuti alla guida di un partito che, da tempo, sembra aver smarrito la bussola della nostra società. Come più volte è stato scritto anche sul nostro giornale, il Pd è stato percepito da una larga parte dell’opinione pubblica come un partito conservatore, elitario, troppo vicino all’establishment.

Le ragioni di tale percezione sono molteplici. Innanzitutto, il Pd sconta la sua vocazione “governista” che lo ha condotto più volte al governo senza vincere le elezioni. La stampa progressista ha sempre legittimato questi governi emergenziali evocando puntualmente i principi costituzionali: la nostra Costituzione non prevede che il popolo elegga i governi; i governi nascono in Parlamento; fino a quando un governo gode della fiducia del Parlamento, non si possono sciogliere le Camere.

Era questo il “pistolotto” con cui, in modo pretestuoso, veniva giustificato il “pronto soccorso” del Pd a tutte le crisi di governo di questi anni durante i quali i dirigenti hanno vivacchiato baloccandosi nell’illusione che potesse reggere in eterno la favola del partito responsabile e “istituzionalista” pronto ad immolarsi per il paese.

Senso delle istituzioni e contiguità al potere si sono, pertanto, intrecciati e sovrapposti contribuendo ad accreditare l’immagine di un partito congenitamente incapace di combattere il privilegio ma capacissimo di frequentare disinvoltamente associazioni, ambienti e salotti un tempo ritenuti inaccessibili alla sinistra.

La vanità del potere ha, quindi, prodotto quell’obnubilamento che ha impedito di vedere il progressivo impoverimento del paese e la lenta “proletarizzazione” dei ceti medi che, non a caso, nelle ultime elezioni hanno voltato le spalle al Pd.

Da questa crescente incapacità di dare voce al disagio sociale è nato il Movimento 5 Stelle che ha il merito di aver imposto all’attenzione dell’opinione pubblica l’esistenza di quel grave conflitto distributivo ignorato da un Pd imbolsito da un esercizio del potere sempre più ossessivo. Il reddito di cittadinanza, pur con le distorsioni e gli abusi che conosciamo, rappresenta una misura di cui una vera sinistra non dovrebbe vergognarsi tenuto conto, altresì, che in tutti i paesi avanzati esistono forme similari di protezione sociale.

Di contro, i dirigenti del Pd hanno vissuto con angoscia l’ipotesi di associarsi ai pentastellati nella difesa di uno strumento che, a dirla tutta, andrebbe emendato ma non eliminato. Sull’altro versante, di contro, la destra non ha avuto alcuna remora nel sostenere misure sicuramente più temerarie come, ad esempio, i condoni e la flat tax.

Da questo dettaglio si evince che la destra fa orgogliosamente la destra mentre la sinistra si vergogna di fare la sinistra. Infatti, davanti al fuoco incrociato contro il reddito di cittadinanza, il Pd non ha avuto il coraggio di sostenere che il vero problema del paese fosse l’esplosione delle disuguaglianze sociali e non già quell’obolo miserevole lanciato ai poveri.

Si capisce, pertanto, perché tanti elettori del Pd abbiano deciso di disertare le urne o di votare 5 Stelle: fatta eccezione per quella parte di elettori che vota Pd per abitudine, per fede o per rassegnazione, non ci sono ragioni per votare un partito senza più identità che piace alla borghesia delle grandi città e ignora le periferie, i giovani, il precariato.

La disfatta elettorale del 25 settembre ha dimostrato in modo inequivocabile che il partito Democratico non è più un partito di sinistra ma, forse, non lo è mai stato.

Occorre riconoscere che un partito strutturalmente privo di capacità espansiva non può essere ritenuto riformabile. Per tale ragione, servirebbe un soggetto politico completamente nuovo e diverso, in grado di conciliare il Jobs act con il reddito di cittadinanza che rappresentano, per le diverse finalità, due misure complementari e compatibili.

Spiace dirlo ma forse è arrivato il momento di prendere atto che il Pd, questo Pd, non deve pensare a rinnovarsi ma deve valutare seriamente l’ipotesi di sciogliersi.

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