La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum sull’eutanasia legale promosso dall’Associazione Luca Coscioni che, grazie all’apporto di 13 mila volontari, è riuscito a raccogliere in tre mesi (giugno-settembre 2021) 1.200.000 firme. In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, sappiamo che la bocciatura della richiesta di depenalizzare il reato di “omicidio del consenziente” previsto dall’art. 579 del codice penale, si fonda sull’assunto secondo cui “a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.

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A differenza di altri paesi, la legislazione italiana non contempla la fattispecie del suicidio assistito e questo vuoto normativo ha imposto all’attenzione dell’opinione pubblica la necessità di un intervento volto ad evitare il ripetersi di casi come Welby, Eluana Englaro e di tanti altri cittadini italiani di cui si conoscono le drammatiche esperienze attraverso il racconto dei familiari.

L’eutanasia costituisce un tema “scivoloso” su cui non è facile aprire una discussione pacata che non sia inficiata da luoghi comuni o posizioni dottrinali. Il mondo laico e il mondo cattolico si fronteggiano da decenni su questo terreno e, a causa di tali divisioni, il Parlamento italiano non è mai riuscito a varare una legge in grado di superare una contrapposizione che la pronuncia della Consulta rischia di esacerbare. Il rischio di essere irretiti dalle maglie di questa vecchia disputa si può scongiurare solo ancorando il confronto al diritto positivo, cioè ai principi generali del nostro ordinamento giuridico che trova nella Costituzione l’incontestabile architrave. Per il diritto italiano il bene della “vita” si pone a fondamento dei “diritti inviolabili” del cittadino (art. 2 Cost.) e di tutti gli altri diritti fondamentali previsti nel Titolo I della Carta costituzionale.

Per “diritto inviolabile” si intende un diritto che il titolare può opporre contro chiunque pretendendone l’intangibilità: nessun terzo, pertanto, può limitare o turbare il pacifico godimento del diritto.

Il “diritto indisponibile”, di contro, vanta un campo semantico più ampio che verte sulla intangibilità assoluta del diritto di cui neppure lo stesso titolare può disporre. Si tratta, pertanto, di diritti soggettivi che il nostro ordinamento giuridico considera di rango superiore e, come tali, meritevoli di tutela da parte dell’intera collettività che supplisce all’inerzia del titolare sostituendolo.

Si ponga ad alcune fattispecie di reato perseguibili d’ufficio, di cui non occorre la querela della parte offesa: la prostituzione minorile, oppure l’usura. In quest’ottica, il diritto alla vita rappresenta un diritto “indisponibile”, cioè un bene costituzionalmente garantito di cui nessuno può disporre, neppure la stessa persona: nessuno può essere privato né può privarsi in modo autonomo del diritto alla vita, come ha statuito una celebre sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo secondo la quale “il diritto alla vita non può ricomprendere il diritto a morire”.

Coerentemente con tale impostazione, in Italia sono oggi puniti l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) nonché l’istigazione e l’aiuto al suicidio (art. 580 c.p.).

In attesa di leggere le motivazioni della sentenza della Consulta, non ci resta che sperare nella saggezza di un legislatore che, con il giusto equilibrio, riesca a contemperare il principio della indisponibilità della vita con il dovere di comprendere il dramma di tutti quei soggetti che versano in gravi condizioni di sofferenza e di patologia irreversibile.

Impresa ardua, certamente, sulla quale si misurerà la statura etica di un paese che, purtroppo, per quieto vivere, troppo spesso preferisce non prendere posizione. Come diceva Leo Longanesi, “Quando suona il campanello della loro coscienza, fingono di non essere in casa”.

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