Per intere generazioni Enzo Biagi, Indro Montanelli ed Eugenio Scalfari hanno rappresentato un punto di riferimento irrinunciabile del giornalismo italiano. Erano un modello di stile, di rispetto e di tolleranza nei confronti dell’avversario e di tutto ciò che fosse diverso e “altro” da loro.

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Comprare un giornale era un rito che veniva celebrato ogni mattina con una passione del tutto sconosciuta ai nostri giovani molti dei quali non sanno neppure chi fossero “quei tre”.

La morte di Eugenio Scalfari offre l’occasione per ripensare a come siamo cambiati. Basta scorrere le cronache per rendersi conto dell’imbarbarimento del costume e del linguaggio, sempre più becero e sprezzante. Da bambini venivamo ammoniti ad essere “educati” con chiunque. Il turpiloquio era rigorosamente bandito perché era contrario al “galateo” che rappresentava il primo mansionario del bravo cittadino.

Con tono ieratico il maestro delle elementari ci insegnava che il “rispetto delle istituzioni” iniziava alzandosi all’arrivo di ogni adulto. Era un’Italia ingenua che si dischiudeva tra le paure di una trasformazione tanto veloce quanto indecifrabile negli esiti.

Solo oggi, a posteriori, siamo in grado di tracciare un profilo delle nostre mutazioni identitarie.

Gli economisti seguitano a ricordarci che, per la prima volta dal secondo dopoguerra, le nuove generazioni sono più povere delle precedenti. Finisce per sempre l’illusione della crescita infinita e si disvela compiutamente la vera natura del “turbocapitalismo” che, secondo i suoi cantori, avrebbe dispensato felicità a tutti i popoli del pianeta. Clima, guerra e pandemia ci hanno chiarito la nostra vera natura, per lungo tempo occultata dai veli dell’opulenza.

Siamo diventati un popolo arrabbiato, rancoroso, perfino invidioso. Ci siamo incupiti, abbiamo smarrito il senso dell’ironia e della battuta arguta: dove sono gli Achille Campanile, i Fortebraccio, i Longanesi, gli Arbasino e i Flaiano?

La televisione ha contribuito a sdoganare il cattivo gusto, sublimandolo. I nostri figli ebbri di social vivono il loro tedio tra i banchi di scuola. Sono convinti che il sapere non paga, ecco perché a chi insegna pare di versare acqua in un otre sfondato. La laurea, che un tempo conferiva prestigio, oggi produce frustrazione.

Per chi ha studiato è triste imbattersi nella spocchia dei “cafoni”, come Flaiano definiva i “servi arricchiti”, caricatura di una borghesia provinciale e retriva che ama le associazioni perché disprezza la società.

Siamo cambiati profondamente, basta rovistare tra le miserie della nostra quotidianità. Come diceva Enzo Biagi, “anche nella Prima Repubblica i politici mangiavano, ma sapevano stare a tavola”.

Acerrimi nemici, Berlinguer e Almirante si affrontavano in tv con quella classe austera di cui si è persa traccia.

Il giornalismo televisivo annoverava uomini come Tito Stagno, Enzo Tortora, Paolo Frajese, Andrea Barbato, Sergio Zavoli.

Nella totale diversità, culturale o caratteriale, tutti i protagonisti della vita pubblica avevano una costante: il garbo.

Mai un insulto, mai un’offesa, mai un’invettiva. Rivera e Mazzola, Agostini e Pasolini, Pietrangeli e Panatta, Fellini e Zeffirelli, Eco e la Fallaci, Mina e la Vanoni, Brera e Arpino, Pippo Baudo e Mike Bongiorno, tutte rivalità, silenziose e immarcescibili, mai trasmodate nei toni sguaiati di oggi.

Con la morte di Eugenio Scalfari cala definitivamente il sipario su una stagione, su una generazione e su un paese che non esistono più.

La colpa di noi adulti è di non aver saputo custodire gli esempi della nostra giovinezza. Per infinite ragioni stiamo tuttora assistendo ad una sorta di mutazione antropologica che vede i figli completamente diversi dai genitori.

Forse potevamo di più. Forse potevamo parlare di più con i nostri ragazzi imparando ad ascoltare anche i loro silenzi. Forse potevamo educarli ad avere il coraggio delle proprie opinioni, a rifuggire dai facili conformismi, a non essere servili, a sfidare i potenti se la coerenza impone di farlo, a possedere il denaro senza esserne posseduti, ritenendolo un mezzo per essere liberi e non una ragione di vita.

Ecco, se avessimo insegnato ai nostri ragazzi tutto questo, forse oggi avrebbero saputo chi erano “quei tre”.

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